Incontro
del Presidente della Repubblica
con la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI)
Roma, 22 novembre 2001
Saluto
del prof. Luciano Modica
Presidente della CRUI

Signor Presidente,
siamo molto
felici che Lei abbia voluto confermare l'incontro annuale con i rettori
delle università italiane. Le assicuro che noi tutti sentiamo
ormai quasi come un'esigenza personale, non solo come un'opportunità
collettiva, quest'occasione di confronto con la massima autorità
- mi permetta di dire: non solo civile ma anche morale - della nostra
Patria.
Anche
quest'anno non mi azzarderò a dipingere un affresco generale
della situazione universitaria. Non credo che ci riuscirei. Ho scelto
invece pochi temi che mi sono sembrati i più interessanti su
cui attirare la Sua attenzione e che, in parte, sono collegati a temi
trattati l'anno scorso, sulla base di quanto Lei stesso ci ha chiesto:
di redigere anno dopo anno un bilancio delle poste attive e di
quelle passive, un rendiconto di quanto ci eravamo impegnati
a fare e di quanto siamo in realtà riusciti a realizzare.
Tra questi temi non ci sarà, lo dico subito, la situazione finanziaria
delle università, che era stato il primo dei punti dell'anno
scorso. Non perché la situazione volga al bello ma perché,
lo dico sinceramente quanto amaramente, siamo ormai sfiduciati su questo
tema. L'opinione pubblica e l'opinione politica corrente non cambiano
segno, non mostrano inversioni di rotta sul tema del finanziamento delle
università. Evidentemente non risultano convincenti né
i confronti finanziari negativi con la situazione di altri Paesi competitori
né quelli confortanti riguardo alla buona qualità dei
nostri laureati e delle nostre ricerche, entrambi operati in base ad
indicatori internazionali.
Formazione superiore e ricerca innovativa sono dichiarati come punti
di forza delle strategie di ogni governo, ma alle dichiarazioni di intenti
non seguono che raramente, oggi come negli anni scorsi, significativi
atti concreti. Ne abbiamo compreso ogni volta la motivazione. Quest'anno
i terribili problemi mondiali, anche di carattere economico, scatenati
dal terrorismo e l'impegno bellico contro di esso. Gli anni scorsi altri
motivi, meno tragici e globali ma altrettanto impellenti. Ma alla fine,
mi creda signor Presidente, rimane una sottile sfiducia, che non ci
impedisce di continuare alacri nel nostro lavoro, ma che lo vela di
un senso di impotenza operativa e di una certa solitudine sociale.
Impotenza operativa, ad esempio, di fronte al netto aumento delle matricole
che si è registrato nell'anno accademico che qui solennemente
inauguriamo alla Sua presenza. Questi nuovi studenti hanno bisogno -
o meglio: hanno diritto - di avere aule, biblioteche, laboratori in
numero maggiore e meglio attrezzati e mantenuti. Purtroppo - ma avevo
promesso di non parlarne! - i fondi statali per l'edilizia generale
universitaria come prevedeva la Legge di bilancio dell'anno scorso diminuiranno
nel 2002 rispetto al 2001, parzialmente compensati dall'elevazione del
limite di spesa per i mutui contratti dal Ministero e dal positivo indirizzo
governativo di ripartire rapidamente l'intero stanziamento triennale.
Gli studenti hanno anche bisogno/diritto di avere docenti più
numerosi e più giovani, ma il numero totale dei docenti universitari
è ormai da dieci anni bloccato attorno a 50.000, né è
purtroppo pensabile aumentarlo visto che l'aumento del fondo di finanziamento
ordinario non è sufficiente nemmeno per coprire gli aumenti stipendiali
dovuti per legge o per contratto al personale già in ruolo.
I nostri studenti sanno che i loro coetanei francesi e tedeschi non
pagano nulla per frequentare le università pubbliche, mentre
a loro viene chiesto di pagare tasse universitarie che ormai, anche
per le famiglie del ceto medio, hanno superato in molti atenei i due
milioni annui. Purtroppo, senza gli investimenti edilizi dello Stato,
queste tasse studentesche non sono sufficienti a migliorare significativamente
e rapidamente la qualità delle infrastrutture universitarie.
E' un problema annoso che rischia di incancrenirsi e di ingenerare proteste
studentesche.
Sarebbe un vero peccato perché una delle spiegazioni possibili
- forse anche l'unica possibile - dell'aumento di matricole è
nell'interesse suscitato dalla riforma didattica e dalla possibilità
di conseguire la laurea in tre anni potendo scegliere in un'offerta
formativa assai più diversificata che nel passato. Sarebbe interessante
anche capire se l'impegno appassionato di migliaia di docenti nel ridisegnare
i percorsi formativi universitari, ben maggiore dello scetticismo disincantato
di tanti altri di noi professori, abbia avuto un ruolo positivo in questa
nuova apertura di credito della società nei confronti della sua
università.
Comprendo che mi si potrebbe accusare di autocompiacimento e di eccessivo
ottimismo. In effetti siamo noi rettori i primi a riconoscere che gli
atenei hanno certamente commesso errori nella prima applicazione della
riforma: un numero eccessivo di nuovi corsi di laurea; un'insufficiente
precisazione dei loro obiettivi formativi e dei loro possibili sbocchi
lavorativi; una carenza di comunicazione con gli studenti e la società.
La nostra tipica autoreferenzialità si è probabilmente
manifestata ancora una volta, alimentata anche dalla mancanza di abitudine
di un confronto serrato con il mondo del lavoro e delle professioni
(mancanza di abitudine peraltro simmetrica) e dalla voglia di fare presto
dopo tanta attesa.
Ma chi avrebbe saputo non fare alcun errore nella prima fase di applicazione
e di sperimentazione di una riforma tanto complessa? L'autonomia didattica,
che è il fondamento oltre che lo stesso titolo della riforma,
contiene al suo interno la possibilità di fare errori ma anche
la possibilità di correggerli facilmente. E' quello che ci apprestiamo
a fare, utilizzando gli strumenti stessi della riforma e semmai chiedendo
di completarli, laddove necessario, nella direzione dell'autonomia responsabile
e naturalmente di una seria valutazione ex post dei risultati.
E' per questo che abbiamo chiesto e chiediamo al nostro Ministro di
continuare a resistere alle facili richieste di bloccare questo processo
che invece deve presto trovare, dinamicamente e non staticamente, un
suo punto di equilibrio.
Mi consenta un accenno ad un punto tecnico. Molti commentatori hanno
stigmatizzato la presenza di troppi nuovi corsi di laurea con denominazioni
giudicate troppo specificamente professionali, o semplicemente frettolose,
o pericolosamente alla moda, chiedendo che si ritorni alle denominazioni
tradizionali fissate centralmente dallo Stato. Per alcune singole denominazioni
le critiche hanno fondamento. Ma ci si dimentica che la riforma, per
ovviare a questa varietà, facilmente prevedibile soprattutto
all'esordio, ha fissato a livello nazionale un piccolo numero di classi
di lauree e i contenuti formativi indispensabili di ogni classe, obbligando
gli atenei a dichiarare l'appartenenza di ogni corso di laurea ad una
classe e a rispettarne gli obiettivi formativi generali fissati a livello
nazionale. Per garantire gli studenti, tutti i corsi di laurea della
medesima classe sono equivalenti dal punto di vista del valore legale
del titolo, nel senso che i loro laureati non potranno essere selezionati
dal datore di lavoro in base alla denominazione della loro laurea
ma solo in base alle loro effettive conoscenze e abilità personali.
D'altra parte la liberalizzazione delle denominazioni e la larga autonomia
concessa agli atenei nel determinare i curricula delle lauree hanno
finalmente permesso di collegare meglio l'offerta didattica universitaria
alla domanda molto differenziata di formazione superiore che viene dai
giovani e dal mondo del lavoro. Molte più lauree collegate alle
scienze e alle tecnologie della comunicazione e dell'informazione, molte
più lauree di natura interdisciplinare, e così via. Sono
d'accordo con quanti ritengono che l'aumento delle matricole dipenda
essenzialmente dall'aver saputo intercettare una domanda che rimaneva
prima delusa, sia di neo-maturi che di persone già inserite nel
mondo del lavoro ma desiderose di maggiore formazione o di lifelong
learning.
Spetta ora agli atenei non deludere le attese, non far perdere a chi
l'ha fatta questa nuova e inedita scommessa nell'università.
Sia facendo funzionare al meglio i nuovi corsi di laurea che si dimostrano
più promettenti e più attraenti, sia eliminando senza
remore quelli che non si dimostrano tali o per carenza di sbocchi lavorativi
o per basso numero di studenti. La valutazione degli studenti, della
società, del Ministero dovrebbe far funzionare una competizione
al meglio degli atenei, basata su corretti rapporti tra costi e benefici,
tra obiettivi e risorse pur all'interno di un quadro istituzionale che
deve mantenere i suoi tradizionali punti di riferimento. La stella polare
dell'università rimangono l'ampliamento e la diffusione della
conoscenza in tutte le discipline tramite la ricerca e la didattica,
la difesa dei valori della cultura aperta e del sapere critico, ovvero,
in una sola bella parola che ci viene dalla tradizione biblica, la Sapienza.
Mi è gradito metterLa al corrente che, utilizzando uno stanziamento
di 200 miliardi provenienti dai fondi ricavati dalla vendita delle licenze
UMTS, la CRUI ha lanciato un programma sperimentale triennale di sostegno
dell'innovazione didattica nelle nuove lauree, denominato CampusOne,
che vede coinvolte tutte le università italiane su progetti estremamente
concreti. Dopo una stringente valutazione da parte di una commissione
nazionale comprendente anche le parti sociali che sono partner del progetto,
la fattibilità finale è stata definita a tempo di record
e CampusOne ha avuto puntualmente inizio lo scorso primo novembre.
L'università è dunque una risorsa strategica del Paese
ed è insieme al suo servizio. Come risorsa strategica pensa di
avere dei diritti, come struttura al servizio del Paese sa di avere
dei doveri. L'anno scorso, proprio qui, Le annunciammo che stavamo pensando
ad una Carta dei diritti e dei doveri delle università. L'abbiamo
redatta, all'interno di un rapporto sullo stato delle università
italiane che Le inviammo già nel marzo scorso ma di cui ho qui
con me una copia per il piacere e l'onore di potergliela consegnare
ora di persona
Questa Carta voleva e vuole essere anche un modo di riaprire un discorso
tra società e università, un dialogo franco e non tra
sordi che eviti anche quel senso di solitudine sociale dei rettori di
cui parlavo prima. Questa è la nostra speranza e il nostro impegno.
Sappiamo bene, ad esempio, che il maggiore fattore di critica alle università,
dopo quello relativo alla bassa efficienza della didattica, è
quello relativo all'impegno lavorativo dei docenti e ai concorsi di
assunzione o promozione.
Per quanto riguarda il primo punto, anche se la caustica battuta di
Antonio Labriola ("Per molti professori universitari la libertà
di insegnamento viene intesa nel senso di libertà di insegnare
o di non insegnare affatto") data ormai di più di un secolo,
occorre dire che la situazione attuale, nonostante qualche residua sacca
di assenteismo, vede i docenti universitari fin troppo impegnati nelle
attività didattiche, addirittura con preoccupazioni per lo sviluppo
della loro attività di ricerca.
Per quanto riguarda i concorsi, il principio della selezione per cooptazione
all'interno di comunità disciplinari inevitabilmente ristrette,
tipico dei sistemi universitari avanzati di tutto il mondo, non è
facile da comprendere ma è certamente molto facile da criticare,
normalmente ad opera dei medesimi docenti universitari. E' storia che
viene da lontano: basti pensare che nella più prestigiosa delle
nostre università, l'Alma Mater di Bologna, nel 1589 ad un giovanissimo
Galilei fu preferito per la cattedra di astronomia il professor Magini
di cui la storia ci ha conservato poco più del nome. E la mia
Università di Pisa, ancor più cieca, se lo lasciò
sfuggire definitivamente dopo pochi anni a favore della brillante e
lungimirante Università di Padova.
Comunque, a parte le reminiscenze storiche, occorre onestamente riconoscere
che le critiche ai concorsi universitari hanno spesso un fondamento
reale. Ristabilire un corretto rapporto tra società e università
significa dunque intervenire anche su questo punto, senza impeti autopunitivi
ma con equilibrio e decisione, soprattutto per rassicurare i giovani
che hanno le doti e la passione per dedicarsi al lavoro di docente universitario
e per cercare anche in questo campo un'armonizzazione a livello europeo.
Non potrà sfuggirLe infatti, signor Presidente, l'importanza
che le nostre carriere universitarie rispettino standard di qualità
europei. Perché ad esempio non pensare, nelle molte discipline
in cui è possibile, a commissioni di valutazione europee? E,
di conseguenza, a norme che assicurino una benefica e facile mobilità
dei docenti in tutta l'Unione Europea? Senza quelle pastoie burocratiche
e cavilli accademici che finiscono col favorire la difesa dei candidati
interni e, in fondo, la fuga dei cervelli di cui tanto si è parlato
negli ultimi mesi o il loro mancato ritorno. Pastoie e cavilli in cui
sembra essersi impantanato anche il provvedimento a favore della mobilità
internazionale cui si era qui accennato l'anno scorso.
"Affermare una nuova deontologia della professione docente",
"Superare le logiche corporative e individualistiche" sono
concetti inseriti tra i doveri delle università nella nostra
Carta. Passare dal docente attorno al quale tolemaicamente ruotava tutta
l'organizzazione universitaria al docente come parte di un sistema planetario
che galileianamente ruota attorno ad un nuovo fulcro, l'istituzione
universitaria, e comunque evolve entro un universo molto più
ampio e complesso. E' appunto una difficile rivoluzione copernicana
quella che dobbiamo realizzare.
Come nessuna legge ha successo senza una componente deontologica di
chi è chiamata ad applicarla, così nessuna deontologia
può affermarsi senza il supporto di una legge saggia. Di una
nuova legge sulla docenza universitaria, consonante con i nuovi doveri
e diritti degli atenei, c'è bisogno. Il tentativo durante la
parte finale della scorsa legislatura non è stato coronato da
successo, ma sarebbe necessario riprovarci.
Delle altre proposte di normativa che l'anno scorso avanzai in quest'occasione,
alcune sono andate in porto nella scorsa legge finanziaria (come quella
sulle imprese di spin-off delle università, fenomeno importante
e in forte crescita, e sull'accesso degli atenei ai fondi per la ricerca
applicata) altre abbiamo appreso dal Ministro Moratti saranno inserite
in provvedimenti collegati alla finanziaria 2002 (come l'esenzione dei
fabbricati universitari dall'ICI e dall'IRPEG e delle borse di studio
dall'IRAP), altre ancora invece sembra che dovranno attendere (come
la patrimonializzazione degli atenei e la defiscalizzazione delle donazioni
alle università e degli investimenti in ricerca universitaria).
L'ultimo dei punti del mio discorso riguarderà i rapporti internazionali
delle università. Mi è stato suggerito da uno dei nostri
colleghi più esperti, rettore di una università prestigiosa.
L'idea di fondo è che la politica estera di una nazione è
fatta anche dai rapporti internazionali delle sue università.
Sono pochissimi i Paesi stranieri in cui nessuna università ha
rapporti con università italiane, mentre sono parecchie migliaia
gli accordi internazionali di cooperazione interuniversitaria firmati
dai nostri atenei e funzionanti. E' un patrimonio di legami personali
e istituzionali, di conoscenze e di esperienze che le università
desiderano mettere a disposizione dell'Italia, delle sue politiche e
del suo sviluppo. E' d'altra parte un patrimonio su cui le università
si augurano che il Paese investa, perché nessun legame come quelli
culturali rafforza stabilmente nel tempo il ruolo di una nazione ed
è fattore di pace e di crescita.
Mi sembra quasi che non si tratti di rapporti internazionali quando
si parla dei rapporti interni all'Europa. Ma, anche su questa scala,
andrebbe sottolineata l'importanza di favorire ancora di più
la mobilità studentesca oltre che quella docente. I programmi
Socrates ed Erasmus hanno avuto un ruolo storico, ma ora stentano ad
ampliarsi. La riforma didattica, con la sua flessibilità e struttura
a più livelli, è destinata a generare nuova massiccia
domanda di mobilità e di sostegni finanziari alla mobilità
che sarebbe erroneo non considerare all'interno di una visione strategica.
Ma i fenomeni più straordinari stanno riguardando il Mediterraneo
e l'America Latina dai cui Paesi si indirizza verso l'Italia un flusso
rapidamente crescente di domanda di formazione universitaria, soprattutto
a livello post-laurea o di dottorato di ricerca, e di collaborazioni
di ricerca. La riforma didattica (con la laurea specialistica) e la
riforma del dottorato del 1998 stanno favorendo questo aumento di domanda
e stanno aprendo nuove frontiere e nuove sfide ai rapporti internazionali
interuniversitari, spesso collegati ai rapporti intergovernativi e alle
strategie dei Paesi emergenti. Paesi come il Marocco, la Tunisia, l'Egitto,
la Siria, l'Argentina, il Cile, tanto per citare i primi che mi vengono
alla mente, sono in prima linea nel cercare nuovi rapporti universitari
con l'Italia e nell'indirizzare i loro migliori studenti verso i poli
di eccellenza della formazione e della ricerca universitaria nel nostro
Paese.
Infatti, sia nella formazione avanzata che nella ricerca (basti pensare
al VI programma quadro che sta per decollare), è assolutamente
fondamentale che l'Italia si doti, come ha cominciato fortunatamente
a fare, di strutture di eccellenza per poter competere in questo "mercato"
dell'alta formazione, che è probabilmente il più remunerativo
in termini di successo politico ed economico del Paese.
Ogni accordo di cooperazione stipulato tra una università italiana
e una straniera è un piccolo "ponte" che si apre tra
i due Paesi, su cui fluiranno nei due sensi persone e idee, docenti
e studenti, formazione e ricerca. Tutti gli accordi vanno a costituire
una ragnatela di rapporti bilaterali, un esempio ante litteram di
globalizzazione, che si accompagna e si integra alla rete tra le diverse
discipline che è nella natura stessa di università.
Il ponte mi sembra sia una bella immagine, dà il senso di condivisione
e di crescita reciproca, quindi proprio di università. Se ripenso
all'indimenticabile angoscia che ha afferrato tutti noi l'11 settembre,
mi sembra di essere stato testimone di un cataclisma che rischiava di
affondare l'Atlantide in cui vivevamo, trasformando un continente felice
in un arcipelago di isole disperse. Tanto da non poterle più
collegare. Ma i ponti ci sono ancora, quelli universitari certamente.
Sta a noi consolidarli per un futuro migliore.
Chiudo, Signor Presidente, con una notazione che ritorna a quell'Unione
Europea in cui il nostro Stato nazionale si integra mantenendo la sua
individualità. Un appello a Lei, che è internazionalmente
riconosciuto come una delle voci più autorevoli dell'europeismo,
affinché nei prossimi anni il tema della formazione universitaria
non sia escluso come a Maastricht ma trovi finalmente posto nei Trattati
e, se sarà possibile, anche nella possibile futura Carta Costituzionale
dell'Unione.
Tutti sappiamo che non è un obiettivo facile, perché è
naturale che sul tema della formazione e dei suoi valori si giochi da
sempre la difesa delle individualità culturali e dunque spesso
nazionali dei vari Paesi. Saranno necessari anni di dibattito e di approfondimento,
sarà necessario ancora una volta quel gradualismo che fu caro
a Monnet e agli altri padri fondatori dell'Europa, ma la via non può
essere che questa: passare dalla volontà dei 31 governi che hanno
sottoscritto a Bologna nel 1999 l'impegno a costruire entro il 2010
lo Spazio Europeo dell'Educazione Superiore al consolidamento, almeno
inizialmente nell'Unione, di questo obiettivo strategico.
Obiettivo tipicamente europeo, possiamo dire, perché ancora una
volta si deve tentare la storica impresa di far convivere entro un quadro
unitario concorde e armonico culture e tradizioni formative diverse,
la cui diversità è a sua volta un valore irrinunciabile
e una ricchezza inestimabile dell'Europa. Obiettivo tipicamente universitario,
mi lasci dire, perché è in un sistema armonico e integrato
di formazione universitaria che il cittadino studente trova da sempre
il senso della sua appartenenza culturale e sociale. Dare a questa appartenenza
una solida e condivisa dimensione europea, garantita stabilmente dai
documenti fondanti dell'Unione, è una sfida fondamentale che
dobbiamo vincere per il futuro di tutti.
Grazie.
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