Incontro del Presidente della Repubblica con la CRUI
Roma, 2 novembre 1999

Saluto del Prof. Luciano Modica,
Presidente della CRUI e
Magnifico Rettore dell'Università degli Studi di Pisa.



Signor Presidente,

al momento della sua elezione alla suprema carica dello Stato la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane ha salutato l'evento con grande e convinta soddisfazione: per la Sua figura di alta moralità politica e di indiscusso prestigio culturale e professionale, per il Suo lungo e intenso impegno civile al servizio del nostro Paese in posizioni di grande responsabilità. L'aver già così tanto contribuito a portare l'Italia a lusinghieri e storici successi, ammirati anche all'estero, ci è sembrata la garanzia migliore per il nostro Paese di poter contare su un Presidente della Repubblica che rappresenti tutti gli italiani nel modo migliore possibile.

Nell'aver deciso di proseguire la prassi, inaugurata dal Suo predecessore, di ricevere ogni anno al Quirinale i rettori italiani in occasione dell'inizio dell'anno accademico, Lei ci ha fatto innanzitutto un grande onore personale e istituzionale, del quale desideriamo ringraziarLa vivamente, e ci ha dato anche la possibilità di illustrarLe concisamente alcuni temi cruciali del mondo universitario, di cui siamo certi che Lei condividerà l'importanza per lo sviluppo dell'Italia e su cui speriamo di poter avere il Suo consiglio e il Suo sostegno.

Prima di ciò mi permetta di rivolgerLe, oltre al nostro deferente saluto, anche quello dell'intero sistema universitario italiano che ci sentiamo di rappresentare appieno: le 74 università statali o libere di cui siamo rettori, i 100.000 docenti, tecnici e amministrativi che portano avanti le attività didattiche, di ricerca e di gestione degli atenei, il milione e 700.000 studenti e studentesse che frequentano le nostre aule, i nostri laboratori, le nostre biblioteche per accrescere la loro preparazione culturale, per prepararsi professionalmente alla vita lavorativa, per dare vivacità e nuova linfa all'insegnamento e alle ricerche che si svolgono nelle università.

Mi permetta anche di rivolgerLe il saluto che il Ministro dell'Università, Senatore Zecchino, informato di questo incontro che Lei ci ha concesso ma impossibilitato a intervenire, mi ha incaricato di trasmetterLe col suo ringraziamento per l'attenzione con cui Lei segue il mondo universitario.

Parlare di università vuol dire parlare di produzione e trasmissione del sapere, di ricerca scientifica e di formazione superiore. L'inscindibilità tra i termini di questa coppia di attività è alla base dell'idea stessa dell'istituzione "università", quale essa nacque nella nostra Europa all'inizio del millennio che ora si chiude e quale si è mantenuta in questi dieci secoli, con indiscutibili successi per lo sviluppo della civiltà.

Nonostante che l'attenzione attuale dell'opinione pubblica e dell'attività normativa sia polarizzata sulla didattica - come è certamente comprensibile e ampiamente accettabile per il ruolo di delicata valenza sociale della formazione universitaria tra i giovani, nelle loro famiglie e nel mondo del lavoro - preferisco qui cominciare invece dalla ricerca.

Un docente universitario ha il dovere di cercare di ampliare il sapere nella sua disciplina, sviluppando ricerche originali. In realtà questo dovere non è stato mai codificato e, anche se lo fosse, sarebbe assai difficile sanzionarne il mancato rispetto, perchè troppo delicata e personale è la creatività scientifica. Sarebbe comunque importante confermare sempre questo dovere, perchè è il fondamento stesso della legittimazione ad insegnare all'università, e incentivarne il rispetto, anche con strumenti di tipo contrattuale, perchè non vi è alcun dubbio che la qualità di un'università dipende fortemente dalla qualità delle ricerche che i suoi docenti vi conducono e la qualità del sistema universitario di uno Stato dipende da quella delle università che lo compongono.

Se non è accettabile la sostanziale equiparazione, anche stipendiale, tra quei docenti - e sono moltissimi - che si impegnano a fondo nella didattica e quei pochi che, purtroppo, la interpretano come una sinecura e per giunta non sono sanzionabili per la mancanza di adeguati strumenti normativi, altrettanto inaccettabile è fissare ogni parametro di valutazione della produttività dei docenti in base all'insegnamento, senza considerare per nulla la ricerca. Una nuova legge promulgata qualche giorno fa introduce e finanzia, anche se poco, forme di incentivazione in base all'impegno didattico; a giudizio della Conferenza dei Rettori, è un'ottima scelta innovativa, ma occorrerà mettere in campo subito anche altre forme di incentivazione in base all'impegno nella ricerca, soprattutto nei campi della ricerca di base non finanziabile da contratti con imprese.

Del resto la buona ricerca induce, per sua natura, una certa competizione. Per facilitare confronti competitivi, sono stati introdotti e si vanno via via raffinando e diffondendo indicatori quantitativi di qualità dei risultati della ricerca basati sull'interesse che una certa ricerca stimola nella comunità scientifica internazionale interessata. Inoltre, anche in Italia, è stata recentemente introdotta, con notevole successo, una nuova modalità di assegnazione dei finanziamenti statali per la ricerca universitaria di interesse nazionale in base ad una competizione tra i progetti presentati dai vari gruppi di docenti, giudicati con la tecnica, universalmente utilizzata nel mondo della ricerca, della recensione di ogni progetto ad opera di più esperti anonimi, la cosiddetta peer review .

Semmai occorrerebbe estendere queste forme di valutazione competitiva all'assegnazione di tutte le risorse finanziarie che lo Stato destina alla ricerca scientifica e tecnologica, molte delle quali, invece, sono ancora ripartite con modalità diverse, quasi sicuramente meno efficaci a garantire la qualità dei risultati. La Conferenza dei Rettori è ben cosciente della specifica e irrinunciabile missione che le università hanno di essere la sede primaria della ricerca e di sostenere le ricerche ideate e condotte in piena libertà dai loro docenti, mossi quasi sempre da quella molla affascinante che si chiama curiosità intellettuale. Ma non per questo ha mai rivendicato alcun monopolio degli atenei su singoli aspetti della ricerca, bensì chiede che essi possano accedere, con gli altri attori del sistema pubblico e privato della ricerca, al mercato competitivo dell'assegnazione dei finanziamenti.

La convivenza nelle università della ricerca autonoma, che cerca finanziamenti avanzando proposte dal basso (come si dice in gergo, bottom-up), con la ricerca indirizzata, che cerca finanziamenti concorrendo con proprie proposte a tematiche indicate dall'alto (top-down ), è una grande opportunità di crescita per gli atenei, una strada su cui stiamo muovendo i primi passi e che dovrebbe portare ad una sempre maggiore interazione con gli altri enti di ricerca e con le imprese interessate all'innovazione tecnologica.

La Conferenza dei Rettori auspica che la riforma del sistema nazionale della ricerca approvata nel 1998, che sta avendo qualche naturale difficoltà e incertezza di avvio, produca rapidamente gli effetti positivi attesi: una gestione organica a livello governativo di tutto il tema della ricerca; una chiara individuazione delle responsabilità di ambedue i meccanismi bottom-up e soprattutto top-down con l'elaborazione e la gestione del Piano Nazionale della Ricerca (che si spera possano essere affidate a personalità scientifiche di rango con diretta esperienza del mondo della ricerca); lo sviluppo di serie e adeguate politiche di valutazione ex ante, in itinere ed ex post. Insomma, quella visione sistemica e quel trinomio autonomia-responsabilità-valutazione che hanno già caratterizzato positivamente nell'ultimo decennio il periodo di transizione e innovazione della politica universitaria in Italia.

Una buona politica della ricerca deve avere al suo interno anche una politica dell'eccellenza: lo richiedono i meccanismi stessi della ricerca e la competizione internazionale in una società così globalizzata. Il motore della ricerca d'eccellenza ha un unico carburante vero: l'individuazione e la cura attenta dei migliori talenti tra i nostri giovani. Il sistema della formazione di eccellenza è stato finora poco curato nel nostro Paese, salvo alcune ben note eccezioni, di altissima qualità ma quantitativamente trascurabili rispetto ai sistemi di altri Paesi europei. Lei stesso, signor Presidente, sappiamo che proviene da quella Scuola Normale Superiore di Pisa che, nel campo delle lettere e delle scienze, ha da oltre un secolo la missione della formazione d'eccellenza.

Già nel 1996 la Conferenza dei Rettori individuò lo sviluppo del sistema della formazione d'eccellenza come uno degli obiettivi-chiave dello sviluppo del sistema universitario italiano. Un obiettivo delicato, su cui bisogna muoversi con calma e con saggezza e che non darà frutti immediati ma che, appunto per questo, non deve essere troppo a lungo rinviato. I modelli possibili per la formazione di eccellenza sono molti ma rimane fondamentale, perchè essa non si snaturi o non costi troppo rispetto ai benefici attesi, la necessità di mantenere ben limitati e altamente selettivi per merito gli accessi. Importanti sperimentazioni sono state avviate a Catania, Lecce e Pavia; dovrebbero dare quelle indicazioni di cui si ha necessità per impostare correttamente un sistema nazionale efficiente e flessibile.

Se la formazione d'eccellenza riguarderà sempre un numero assai limitato di studenti e studentesse, la formazione universitaria riguarderà invece una percentuale sempre maggiore dei nostri giovani e anche, come già sta turbinosamente avvenendo in altri Paesi europei, un numero importante di persone occupate che ritornano agli studi universitari per la formazione continua e ricorrente, per quell'apprendimento lungo tutto l'arco della vita che è il leitmotiv della società della conoscenza che si profila nel prossimo secolo.

Agli studenti universitari di qualunque età gli atenei devono garantire una qualità sempre crescente, nell'offerta di corsi di studio e nei servizi formativi collegati. Occorre riconoscere che le università italiane sono in ritardo su questo obiettivo, un ritardo che stanno cercando di colmare a tappe forzate ma che deriva dalla passata, lunga disattenzione, anche governativa, al fenomeno di un'università che diventava di massa nel numero degli studenti ma non era in grado di adeguare le risorse e gli strumenti gestionali.

Qualità vuol dire innanzitutto capacità di rispondere alle attese degli "utenti", dove gli utenti, nel caso della formazione universitaria, non sono solo gli studenti - che peraltro della formazione sono e devono essere protagonisti più che utenti - ma sono anche le loro famiglie, che ne pagano in parte i costi, e il mondo del lavoro che ha bisogno di persone ben preparate. Due attese molto sentite sono certamente quelle di vedere un numero minore di abbandoni prima della laurea e un tempo minore per conseguirla da parte di chi riesce a concludere gli studi; inoltre una migliore corrispondenza tra i corsi di studio universitari e la variegatezza e mutevolezza di un mercato del lavoro aperto più a specifiche nicchie occupazionali che ai grandi comparti tradizionali.

Problemi facili a descriversi, su cui l'opinione pubblica tiene giustamente fissa l'attenzione e che la Conferenza dei Rettori ha da anni individuato con franchezza come punti cruciali di malfunzionamento degli atenei. Problemi però non facili a risolversi nei tempi immediati che la società odierna si attende perchè, oltre ad una chiara individuazione strategica delle soluzioni da perseguire, sarebbero necessarie risorse finanziarie, logistiche e normative di non semplice approntamento.

Anche se è purtroppo prematuro vederne risultati significativi, il lavoro condotto in questi ultimi anni dagli atenei nella loro autonomia, dal Parlamento e dal Governo è stato molto ampio. Vorrei solo citare la riforma dell'architettura degli studi universitari appena varata, che dopo oltre un secolo interviene a mutare il tradizionale monolivello degli studi universitari introducendo i tipici tre livelli sequenziali presenti in gran parte degli altri Paesi. Un primo livello triennale, che si chiamerà ancora laurea; un secondo livello di laurea specialistica dopo ulteriori due anni di studi; infine un terzo livello di formazione per la ricerca e tramite la ricerca che porterà a conseguire, dopo ulteriori tre o quattro anni, il dottorato di ricerca. Un compito, quest'ultimo, recentemente devoluto per legge interamente alle università nella loro autonomia e che ne è uno dei compiti primari, forse il più delicato e importante.

La stessa riforma introduce finalmente l'autonomia didattica tanto a lungo richiesta, affidando alle università, con meccanismi tecnici che non è qui il caso di approfondire, una grande flessibilità nei corsi di studio da offrire agli studenti e nei relativi curricula, aprendo spazi di competizione - sempre la stessa parola che si ripete - anche in questo campo pur all'interno di un sistema che continuerà a garantire un certo accreditamento statale dei curricula a garanzia del valore dei titoli universitari.

Un periodo difficile ma esaltante attende dunque tutti gli atenei per mettere a punto rapidamente la nuova architettura della formazione universitaria e per dimostrare di essere finalmente capaci di rispondere alle attese della società, con la difficoltà aggiuntiva che la società stessa tende in genere ad essere alquanto conservatrice sui temi scolastici.

Come spesso accade, siamo stati e, temo, saremo costretti ad un recupero di produttività nella ricerca e nella didattica in un periodo di risorse statali fortemente contingentate. Un Governo da Lei stesso presieduto nella legge finanziaria di sei anni fa ci costrinse improvvisamente a fare i conti con l'autonomia gestionale a budget sostanzialmente invariato. Lei certamente saprà quanto questa drastica misura ha modificato positivamente la gestione degli atenei e la filosofia stessa della vita universitaria, dapprima alquanto adagiata su comodi schemi centralistici pur rivendicando - ad ogni più sospinto - l'autonomia costituzionalmente garantita.

In questi cinque anni abbiamo fatto stringere la cinghia, ci creda signor Presidente, alle nostre università. Abbiamo imparato molto, in particolare a progettare e gestire con l'occhio sempre rivolto alle compatibilità finanziarie, e abbiamo fatto imparare molto ai nostri docenti, ai nostri tecnici e amministrativi, ai nostri studenti anche. Abbiamo fortemente aumentato il prelievo contributivo sugli studenti, senza causare squilibri di importi o di equità che avrebbero causato contestazioni. Abbiamo cercato di inseguire, con progetti di ricerca e di innovazione didattica, ogni possibile forma di finanziamento non statale che contribuisse ad alleviare le sofferenze dei nostri bilanci. Abbiamo accettato e fatto accettare - e non è stato facile - di non poter spendere, per le limitazioni al fabbisogno che Lei stesso ha introdotto da Ministro del Tesoro, le risorse finanziarie del bilancio statale già assegnate agli atenei, peraltro cogliendo esattamente ogni anno, caso forse unico tra le amministrazioni pubbliche, l'obiettivo di fabbisogno programmaticamente assegnato al sistema universitario nel suo complesso. Abbiamo, insomma, contribuito con tutto il resto del Paese al risanamento finanziario dell'Italia e al suo ingresso, sin dal primo momento, nel sistema della moneta unica europea.

Ci attendiamo ora, mi permetta di dirlo a Lei con assoluta franchezza, che lo Stato ritorni ad investire nelle sue università, che poi vuol dire nelle sue risorse umane, attuali e future, forse l'unico vero bene-rifugio nella società della conoscenza, l'unica vera garanzia per mantenere e diffondere il benessere. Dobbiamo dare atto al Governo che la finanziaria del 2000, così come altri importanti atti governativi quali il Patto Sociale per lo sviluppo, il Masterplan sulla formazione, il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria per i primi anni del 2000, aprono spazi significativi, nuovi e interessanti per il finanziamento del sistema universitario. L'analisi di alcune norme di dettaglio ci ha però recentemente preoccupato, perchè questi spazi si sono rivelati assai più ridotti di quanto speravamo e pensavamo di meritare. Ci auguriamo di esserci sbagliati, oppure, se così non è, di vedere queste norme modificate nel cammino parlamentare.

I numeri sono del resto dalla nostra parte. Lei certamente saprà che, a fronte dei 13-20 studenti per docente di Francia, Germania e Gran Bretagna, ce ne sono 34 in Italia; a fronte di 100 euro investiti per studente in Italia, questi tre Paesi ne investono 200-300. Ma non siamo poi così inefficienti come si usa dire: ogni laureato costa in questi Paesi dal 20% al 100% più che da noi.

L'Italia ha ospitato nel giugno scorso a Bologna, nella più antica delle università, un convegno importante al termine del quale i ministri dell'università di ben 29 Paesi europei hanno firmato una dichiarazione di portata storica, impegnandosi a creare, nel corso del primo decennio del prossimo secolo, uno "spazio europeo dell'educazione superiore". E' stato un notevole successo della nostra "diplomazia universitaria" e un grande riconoscimento al lavoro europeistico condotto dal nostro Paese anche nel campo delle università; ma costituisce un impegno oneroso, certamente per le università italiane chiamate a rinnovarsi ed integrarsi con le altre europee, ma anche, speriamo, per i nostri governanti, chiamati a sostenere questo nostro sforzo.

Siamo certi - per la coscienza europea che da sempre nutre la Sua azione e per l'attenzione che porta allo stabilirsi di una società più giusta, aperta e pacifica anche perchè più ricca di educazione superiore e di ricerca scientifica - che Lei sarà dalla nostra parte. E, come segno di riconoscenza e di ringraziamento, La prego di gradire in dono la medaglia d'oro che la Conferenza dei Rettori ha fatto coniare per i suoi presidenti al termine del loro mandato. Ci aiuterà, spero che me lo permetta, a sentirLa come uno di noi. Grazie.