Incontro del Presidente della Repubblica
con la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI)
Roma, 22 novembre 2000

Saluto del prof. Luciano Modica
Presidente della CRUI e Rettore dell'Università di Pisa


Signor Presidente,

i rettori delle università italiane sono felici che Lei abbia voluto confermare questo incontro annuale all'inizio dell'anno accademico e desiderano ringraziarLa per l'attenzione e l'interesse con cui segue il sistema universitario e lo sprona nelle direzioni più utili allo sviluppo culturale e socio-economico dell'Italia.

Questa Sua attenzione, questo Suo sprone sono risultati particolarmente evidenti ai tanti rettori, per l'esattezza diciotto, che Lei ha incontrato, singolarmente o in gruppo, nelle università che ha visitato. Ognuno di loro ricorda con soddisfazione il Suo desiderio di rendersi conto di persona delle varie situazioni e l'apporto di intelligenza strategica e di concreta fattività che Lei ha saputo offrire alla discussione e agli impegni da prendere. Sono certo che vorrebbero tutti riferirLe dell'evoluzione dei diversi problemi, la cui complessità e differenziazione non sarei in grado di presentare io in un indirizzo di saluto. Mi sento invece in grado di assicurarLe che non c'è rettore, a cominciare da me stesso, che non ambisca ad una Sua visita per presentarLe in dettaglio il proprio ateneo, con i suoi successi e le sue difficoltà.

Ma il mio compito qui non è quello di essere portavoce delle singole università, bensì del sistema universitario nel suo complesso del quale non posso certo presentarLe lo stato generale. Mi limiterò quindi a due soli punti, enucleando alcuni problemi sui quali avere possibilmente il Suo punto di vista.

Il primo punto riguarda le limitate risorse finanziarie che l'Italia destina al suo sistema universitario. Siamo lieti di riconoscere che nella finanziaria 2000, e anche in quella 2001 attualmente in discussione in Parlamento, il fondo di finanziamento ordinario degli atenei sia stato aumentato di circa il 7% annuo, ma occorre anche che si dica con chiarezza che solo una piccola parte degli aumenti non è finita o non finirà assorbita dagli incrementi stipendiali decisi a livello nazionale per docenti, tecnici e amministrativi. Ben limitato è stato dunque l'incremento reale delle disponibilità finanziarie delle università e, per giunta, inserito in un meccanismo di riequilibrio tra gli atenei che va correttamente a vantaggio solo del gruppo di quelli storicamente più svantaggiati. Sembra quindi allontanarsi sempre più l'obiettivo di avere finanziamenti statali alle università allineati alle medie per studente e per laureato dell'Unione Europea. Infatti la differenza oscilla ancora, come nel 1996, tra il 20% e il 100% in più in Francia, Germania e Gran Bretagna, né accenna a migliorare,in una tale situazione, il rapporto tra docenti e studenti, assai più basso in Italia che negli altri Paesi citati: 34 studenti per docente da noi a fronte dei 10-20 altrove.

Ancora peggiore la situazione degli investimenti infrastrutturali e di quelli per la ricerca universitaria. Il finanziamento dello Stato per l'edilizia universitaria, che pur si è praticamente raddoppiato negli ultimi tre anni, è ancora ad un valore di poco più di trecentomila lire annue per studente. E' quindi quasi del tutto impossibile, con questi fondi, fare altro che la manutenzione. Il finanziamento statale della ricerca universitaria, che pur si è triplicato rispetto a quattro anni fa, è inferiore a sei milioni di lire per docente (un computer e un viaggio all'estero) e, comunque, richiede un cofinanziamento di altri quattro milioni da parte dell'ateneo, che non è facile reperire nei nostri attuali bilanci.

Sappiamo bene che il nostro Paese non può fare di più a causa di una situazione finanziaria generale che si è lentamente compromessa nel tempo e che solo di recente ha ritrovato qualche spazio di miglioramento. Per questo motivo le università italiane hanno capito di dover cercare finanziamenti anche al di fuori dell'apporto statale.

Lo hanno fatto ricorrendo alle tasse studentesche che, senza grandi contestazioni per l'equità con cui l'operazione è stata condotta, si sono più che quadruplicate negli ultimi sei anni. Ora è difficile - e sarebbe anche socialmente ingiusto - proseguire allo stesso ritmo, soprattutto perché gli studenti non rilevano, per i motivi anzidetti, un grande miglioramento nelle strutture didattiche che le università sono in grado di offrire loro.

Lo hanno fatto ricorrendo ai contratti di ricerca stipulati con le imprese avanzate tecnologicamente oppure offrendo sul mercato corsi di alta formazione. Ma si tratta pur sempre di fonti ancora alquanto limitate e che comunque vanno in massima parte a compensare i costi marginali delle prestazioni, non già quelli di investimento per il personale e per le infrastrutture logistiche e strumentali. E quando, come capita sempre più spesso, mancano o sono già pienamente utilizzati il personale qualificato e le infrastrutture, non è possibile assumere ulteriori impegni, anche ben retribuiti, senza adeguati investimenti.

Il quadro che ho delineato è certamente a tinte fosche ma mi è sembrato corretto parlarne al Presidente della Repubblica così come dirLe che sappiamo bene di non poter chiedere troppo, ma il giusto vorremmo fosse almeno preso in considerazione.

Peraltro siamo anche convinti che potremmo avere un aiuto reale da interventi intelligenti di piccola portata finanziaria ma di notevole effetto. Faccio qualche esempio. Non è possibile che non si riesca ad avere in Italia una norma che defiscalizzi le donazioni alle università e gli investimenti di privati in ricerca universitaria, come succede già da anni in tanti Paesi stranieri con cui vogliamo competere. Non è possibile che le università che vogliano avviare un'impresa di spin-off o un incubatore, con l'apporto dei propri migliori docenti e studenti, non godano di alcun beneficio fiscale e, addirittura, non possano nemmeno accedere direttamente ai fondi che lo Stato mette a disposizione della ricerca applicata. Non è possibile che, a differenza di altre aziende pubbliche, le università non siano state patrimonializzate con la cessione dei beni demaniali che da sempre e per sempre hanno in uso. Ancora, non è possibile che le università non siano agevolate fiscalmente in termini di imposte sul patrimonio e sul lavoro ma debbano pagare cospicue ICI e IRPEG sui fabbricati universitari e l'IRAP persino sulle borse di studio che assegnano ai migliori studenti del dottorato di ricerca. Non è possibile che le università, pur non avendo mai speso più di quanto lo Stato avesse loro assegnato, pur avendo centrato ogni anno gli obiettivi di fabbisogno determinati dal Tesoro e pur avendo maturato crediti di cassa nei confronti dello Stato per parecchie migliaia di miliardi di lire, vedano ancora percentuali di recupero annuo di questi crediti inferiori al 5% con l'effetto di ritardare per lustri gli investimenti che si potrebbero realizzare per il ricambio generazionale dei ricercatori e per le infrastrutture.

Sui finanziamenti per la ricerca Lei è certamente a conoscenza del documento sottoscritto in giugno scorso dai responsabili dei maggiori centri di ricerca del Paese e anche da me come presidente della CRUI. Non torno quindi sulla loro esiguità, ma Le vorrei segnalare che a tutt'oggi le università rimangono escluse dall'accesso, come proponenti, di buona parte dei fondi statali per la ricerca tecnologica e precompetitiva, spesso dispersi in infiniti rivoli senza meccanismi di reale valutazione della qualità scientifica e del valore economico dell'investimento.

Sappiamo anche che, fortunatamente, non è più il tempo di chiedere senza dare e quindi siamo pronti a fare la nostra parte. Abbiamo già fatto tanto, mi creda signor Presidente, per aumentare l'efficienza e l'efficacia delle nostre attività, sia didattiche sia di ricerca sia gestionali, in modo che le nostre magre risorse non vadano sprecate in sacche di inefficienza. Ad esempio sappiamo bene, meglio di chiunque altro, che portiamo alla laurea pochi studenti e che la maggior parte di loro ci mette troppo tempo, ma non possiamo non far notare che, esaminando le cifre con attenzione, si noterebbe che è in continuo aumento la percentuale di successo negli studi ed è in continua diminuzione la durata media degli studi.

Ma sappiamo di dover fare nel prossimo futuro molto di più. L'anno accademico che inizia è quello di una transizione storica, dal tradizionale sistema a un solo livello (la laurea) ad un sistema a più livelli successivi (laurea, laurea specialistica, dottorato) allineato all'obiettivo di uno spazio europeo della formazione superiore contenuto nella dichiarazione che i ministri di 29 Paesi europei hanno sottoscritto all'Università di Bologna poco più di un anno fa. E' una sfida colossale che stiamo affrontando, che ci costringerà - positivamente - a rivedere tutti i curricula universitari e a crearne di nuovi per una società fondata sulla conoscenza che innova e si rinnova a ritmi straordinari. Per questa revisione godremo finalmente di larghi spazi di autonomia ma sappiamo che dovremo confrontarci, nell'interesse dei nostri studenti, con le parti sociali e con gli altri sistemi pubblici e privati interessati alla formazione universitaria. Basti pensare ai nuovi curricula riguardanti i beni culturali o l'ambiente - temi cruciali per l'Italia - in cui la collaborazione con le sovrintendenze e gli enti territoriali diviene fondamentale.

Desidero attirare qui l'attenzione su un punto specifico assai delicato, sul quale un Suo intervento risulterebbe prezioso. La due livelli di laurea richiedono ovviamente una revisione completa delle modalità di accesso alle professioni e agli ordini professionali. Le attuali sono non di rado di stampo alquanto corporativo e soprattutto sono penalizzanti per un accesso più libero dei giovani laureati al mondo del lavoro. Questa revisione è stata opportunamente prevista dalla legge ma non è stata ancora portata a termine; anzi i lavori preparatori appaiono andare un po' a rilento, il che mette in difficoltà le università e in apprensione gli studenti e le loro famiglie.

Affronteremo la sfida della riforma didattica con risorse statali limitatissime: allo sviluppo del sistema universitario il bilancio dello Stato riserva infatti solo 250 miliardi all'anno, poco più del 2% del finanziamento ordinario. Il pericolo è che, con questo livello di risorse, una riforma epocale si riduca ad una semplice riverniciatura dell'esistente. Invece la sfida e l'impegno su cui vorremmo essere davvero misurati è che si dia vita ad una vera e profonda riforma, che porti almeno il 60-70% degli iscritti a conseguire con serietà un titolo universitario avente solidi contenuti sia di base che professionalizzanti. Nello stesso tempo dovremo organizzarci in modo da coltivare attentamente i migliori talenti offrendo loro una formazione iniziale di qualità e ulteriori percorsi formativi impegnativi e diversificati.

Insomma, come vorremmo vedere affermati i nostri diritti così siamo pronti a sottoscrivere i nostri doveri. Stiamo pensando da tempo ad una carta dei diritti e dei doveri delle università e speriamo di avere il Suo conforto su questa strada.

Uno dei tipici diritti/doveri è quello della valutazione, il secondo punto che desideravo portare alla Sua attenzione. Poco fa chiedevo una severa politica di valutazione della qualità nell'assegnazione dei fondi di ricerca e dicevo anche che vorremmo essere misurati, cioè valutati, sui risultati che otterremo sulla nuova architettura della didattica universitaria. Sentiamo dunque il dovere, proprio e soprattutto in quanto istituzioni pubbliche, di affrontare il giudizio valutativo degli organi dello Stato e dell'opinione pubblica (studenti, famiglie, imprese, mondo della cultura e del lavoro) sui risultati che conseguiamo, aprendo le nostre strutture e i nostri bilanci a questa valutazione. Ma vogliamo anche affermare il diritto di essere valutati sulla base di obiettivi predeterminati e di parametri affidabili.

E' un tema complesso e affascinante, quasi una sfida intellettuale, che si affronta in ogni Paese avanzato. E' facile ridurlo ad un gioco di numeri, di facile presa giornalistica e di limitato significato reale. La qualità è invece un concetto difficile a cogliere in tutte le sue sfumature.

Un'università lassista, in cui agli esami si promuovessero facilmente tutti o quasi gli studenti, avrebbe certamente un alto numero di esami annui per studente e di laureati rispetto agli iscritti ma non potrebbe definirsi di qualità. Un'università arcigna, che rendesse insormontabili gli ostacoli sul percorso formativo degli studenti mediamente dotati e preparati, in base ai medesimi parametri numerici apparirebbe essere un'università "seria" ma, di nuovo, non potrebbe definirsi di qualità. Un'università che avesse molti docenti per studente potrebbe certamente offrire servizi didattici di migliore qualità ma risulterebbe penalizzata sul parametro del costo per studente; viceversa, un'università che mostrasse un basso costo per studente potrebbe essere molto efficiente ma potrebbe anche aver ottenuto questo risultato mettendo a disposizione degli studenti solo pochi docenti a pieno tempo.

Se mi è permessa una piccola nota polemica, recentemente si è vista salutata - anche da personaggi molto autorevoli - come una grande e positiva innovazione la pubblicazione su un quotidiano nazionale di un'improbabile graduatoria generale di qualità delle università ottenuta in base ad una curiosa miscela di parametri, i dati dei quali in parte ignoti alle medesime università. Francamente non credo che sarebbe stato possibile redigere una simile graduatoria di qualità per le fabbriche di automobili o per le marche di elettrodomestici o per gli istituti di credito senza suscitare un pandemonio.

Il mio ragionamento potrebbe essere ritenuto il classico modo accademico per delegittimare intellettualmente e quindi evitare la valutazione. E' il contrario. La lunga esperienza maturata dalla Conferenza dei Rettori, che sin dal 1992 si occupa di valutazione delle attività universitarie e pubblica regolarmente i parametri quantitativi più significativi che ha individuato, mi induce invece a ritenere che questa valutazione è certamente possibile, oltre che opportuna, ma non è facile.

Si dia vita dunque ad un vero sistema di valutazione della qualità delle università, che non trascuri i parametri quantitativi fondamentali ma che sia anche in grado di entrare nel vivo della vita degli atenei, di valutare non solo i risultati nella didattica e nella ricerca ma anche la situazione organizzativa e logistica e la capacità da parte dell'ateneo di mantenerla sotto controllo, le strategie di sviluppo e la capacità di monitorarne la realizzazione e di raggiungere gli obiettivi che l'ateneo stesso si è prefissato, il grado di interazione con il mondo esterno e la capacità dell'ateneo di essere un attore sociale attivo, responsabile e innovativo. E si potrebbe continuare così.

Un aspetto cruciale è la qualità del corpo docente che poi è, in fondo, l'unica vera garanzia della qualità della formazione e della ricerca. Se la cooptazione, ovunque nel mondo, è l'unico metodo possibile per il reclutamento dei docenti universitari, ciò non vuol dire che le politiche di reclutamento degli atenei non debbano essere tenute sotto forte attenzione valutativa, incentivando le migliori (ad esempio l'attrarre giovani ricercatori o leaders scientifici da altre università italiane e straniere, oppure il far nascere e sostenere specifici gruppi di ricerca su temi strategici) e disincentivando le peggiori (la bassa mobilità, il localismo, la dispersione disciplinare).

La valutazione è una chiave importante del governo del sistema e non può risolversi in una graduatoria. I veri obiettivi, già ben individuati nelle analisi condotte a livello europeo, sono altri e non devono essere falliti. La valutazione serve a stimolare l'introduzione in ogni ateneo di adeguati "sistemi qualità", cioè metodi di controllo costante delle procedure e dei risultati e di intervento pronto ed efficace nel caso che si evidenzino difficoltà, in modo da garantire una continua tensione verso il miglioramento dei livelli qualitativi; serve a favorire la diffusione al pubblico di informazioni corrette che generino l'effetto di controllo sociale e di sviluppo di positive logiche di mercato; serve a garantire il valore degli investimenti fatti dallo Stato e dalla società civile nelle università.

Si torna così al primo punto del mio discorso, perché in realtà finanziamenti e valutazione sono due facce della stessa medaglia, sono le uniche due leve utilizzabili per la crescita del nostro sistema universitario. Ad una crescita reale degli atenei italiani noi rettori, signor Presidente, crediamo profondamente e lavoriamo duramente ogni giorno, nella convinzione che lo sviluppo della ricerca e della formazione superiore è un fattore importante, se non il più importante, per il benessere dell'Italia. Dare a questo sviluppo una dimensione europea negli obiettivi e nelle modalità vuol dire anche contribuire per la nostra parte a realizzare nei fatti quella Costituzione dei cittadini europei che Lei ha così autorevolmente indicato come presupposto per l'unione politica che rappresenta il traguardo ideale delle prossime generazioni.

Grazie.