Con la seconda edizione della
classifica CENSIS-Repubblica delle università è possibile evidenziarne
meglio pregi e limiti. E' certamente auspicabile che le attività universitarie
vengano costantemente valutate da Ministero, studenti, mondo del lavoro, opinione
pubblica, come viene regolarmente fatto da anni con azioni locali, nazionali ed
europee. Del resto per legge ciascuna università redige ogni anno un rapporto
di valutazione e raccoglie il giudizio degli studenti.
L'iniziativa di Repubblica ha il merito di attirare l'attenzione su un tema che
altrimenti rimane appannaggio degli addetti, mentre uno degli obiettivi della
valutazione è quello di diffondere pubblicamente informazione corretta.
Inoltre stimola gli atenei a conoscersi sempre meglio quantitativamente ed a controllare
l'andamento dei loro dati numerici fondamentali. Infine accende, insieme a qualche
inevitabile polemica, una certa competizione tra gli atenei a caccia di studenti
preparati e motivati.
Un'inchiesta giornalistica, anche se sostenuta da grande professionalità,
ha però il limite di dover semplificare situazioni complesse. Rischia così,
paradossalmente, di avere effetti disinformativi più che informativi, con
conseguenze negative sull'orientamento dei diplomati e sul valore stesso della
laurea in un dato ateneo. Per controbilanciare questo rischio dovrebbero essere
perfettamente chiariti ai lettori gli indicatori quantitativi che si utilizzano
evidenziando i limiti della loro capacità di descrivere fedelmente i fenomeni.
Inoltre il brillante effetto comunicativo di classifiche generali di tipo sportivo
può trasformare una sana competitività in sterile agonismo, anche
perché le classifiche sono compilate mescolando discrezionalmente i diversi
indicatori. Con classifiche separate per ciascun indicatore, aggregando magari
diversamente i corsi di laurea per ridurre i margini di disomogeneità,
si lascerebbe al lettore il compito di formulare il giudizio complessivo, anche
in dipendenza dei suoi gusti e delle sue aspettative personali.
L'altro inevitabile limite di queste analisi fondate su indicatori quantitativi
è quello di non riuscire a misurare bene la "qualità"
delle attività universitarie. Infatti le normative europee prevedono che
all'analisi degli indicatori numerici sia sempre associata una valutazione qualitativa
su basi diverse: la congruenza tra obiettivi e risultati e tra mezzi e fini, la
verifica della qualità scientifica e didattica dei docenti, la soddisfazione
degli studenti e dei datori di lavoro, etc. Un esempio: se si usa come indicatore
il numero medio di esami superati ogni anno dagli studenti, che cosa si può
dedurre da un valore alto? Che l'ateneo è meglio organizzato e che i suoi
docenti, bravi e attivi, favoriscono un rapido apprendimento degli allievi? Oppure
che i docenti hanno un atteggiamento lassista agli esami?
Insomma una gara tra atenei basata sul numero di esami superati o di lauree rilasciate
potrebbe stimolare un gioco al ribasso di sicuro esito negativo. Non si tratta
di demonizzare le analisi quantitative ma di segnalare l'attenzione con cui le
relative classifiche vanno lette quando ci si confronta con valori delicati come
la formazione superiore delle nuove generazioni.